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DIVISIONE DEL LAVORO, PRIMA PARTE:
DIVISIONE DEL LAVORO E SOCIALIZZAZIONE
“Il lavoro annuale di ciascuna nazione è il fondo donde originariamente si traggono tutte le cose necessarie e comode della vita, le quali annualmente consuma, e le quali consistono sempre o nell’immediato prodotto di quel lavoro o in ciò che col medesimo dalle altre nazioni si acquista.”
Così A. Smith inizia “ex abrupto” la sua “Indagine”, ponendo il lavoro come fondamento dell’esistenza non solo di ciascuna nazione, ma dell’insieme delle nazioni, cioè dell’umanità tutta. Infatti dichiara esplicitamente che il lavoro nella forma di bene utile o viene consumato immediatamente o viene scambiato con altro lavoro. Ma si può constatare che la parte di lavoro scambiata è storicamente sempre aumentata fino a divenire all’epoca di Smith quella di gran lunga preponderante. Quindi la sua asserzione significa che in realtà il lavoro si presenta come totalità, e se l’umanità sussiste su questa base unitaria, anch’essa costituisce necessariamente una totalità.
Ma non è sempre stato così. Fino a tempi storici recenti il fine del lavoro era normalmente l’autosufficienza, e ciò che veniva scambiato erano solo le eccedenze rispetto all’autoconsumo. Quindi anteriormente al tempo di Smith era vera solo la prima parte della sua tesi. Se egli la può estendere alla seconda parte, ciò gli è consentito dalle condizioni storiche dell’epoca. Infatti negli anni in cui Smith scrive, da una parte, dopo il particolarismo medievale, si sono consolidati gli stati moderni, come soggetti politici ed economici, mentre dall’altra il campo della loro attività economica si è esteso a tutto il mondo, costituendo il primo nucleo del mercato mondiale. Ma oggettivamente ciò comporta la costituzione a livello planetario di una struttura economica fondata sulla divisione del lavoro, realtà questa che induce Smith a una riflessione che ha il valore di una scoperta. Certamente, come per tutte le grandi scoperte, anche questa era già nell’aria, e molti economisti dell’epoca avevano parlato della divisione del lavoro, ma Smith svolge questo argomento in profondità, con il riconoscimento che scambio e divisione del lavoro si presuppongono reciprocamente. Intuizione che lo porta alla sua celebre teoria del valore, che individua nel lavoro la fonte del valore delle merci, quindi di ogni ricchezza. Ovviamente lavoro e divisione del lavoro sono sempre esistiti, ma ciò dimostra solo come nelle questioni economiche e sociali non si tratta in realtà di scoprire nulla ma di osservare la realtà storica con occhio disincantato, cioè con una percezione non alterata da distorsioni ideologiche, vale a dire dai pregiudizi della propria epoca. Infatti a quel tempo le opinioni correnti erano altre. Secondo i mercantilisti, la ricchezza poteva identificarsi con i metalli preziosi, oppure, secondo i fisiocratici, con la terra. Teorie queste che tradivano il loro carattere ideologico, poiché implicitamente consideravano fondamentali le attività economiche corrispondenti, cioè il commercio e l’agricoltura, e di conseguenza le classi che le dominavano, la borghesia mercantile e l’aristocrazia. Smith invece scorge la fonte del valore nel lavoro, principalmente quello manifatturiero, e nella divisione del lavoro come moltiplicatore della sua forza, innalzando così una nuova classe, la borghesia manifatturiera, a classe dominante, in quanto dominatrice in tale ambito economico.
Perciò nell’ “Indagine” il primo argomento affrontato è la divisione del lavoro, ma saltando all’estremo opposto del campo d’applicazione della divisione del lavoro, cioè da quella internazionale a quella manifatturiera, considera quest’ultima la vera novità della sua epoca, quella della rivoluzione industriale.
1. LA DIVISIONE DEL LAVORO: DEFINIZIONI TECNICHE
Marx approfondisce in misura notevole la questione della divisione del lavoro, esplicitandone le varie forme e considerandole storicamente, soprattutto nei fondamentali capitoli I.11,12,13, de “Il Capitale”, dedicati rispettivamente alla cooperazione, alla divisione del lavoro manifatturiera e alle macchine. Sarà utile ripercorrere tale cammino, che costituisce una esauriente esposizione dell’argomento, sebbene, secondo lo stile che caratterizza l’autore, poco sistematica.
La cooperazione
Per la cooperazione viene data la seguente definizione. “La forma del lavoro di molte persone che lavorano una accanto all’altra secondo un piano in uno stesso processo di produzione, o in processi di produzione differenti ma connessi, si chiama cooperazione.” (Il Capitale, Editori Riuniti 1989, p.367) Più sotto viene specificato che si ha cooperazione “quando molte braccia cooperano contemporaneamente ad una stessa operazione indivisa”, prendendo come esempio la forza di attacco o di difesa di un corpo militare, il trasporto di un carico di grande peso o costituito da un gran numero di oggetti (catena di braccia). Più avanti viene ulteriormente chiarito che “le molte persone … che fanno la stessa cosa o cose dello stesso genere … è la forma più semplice di lavoro comune … Se il processo di lavoro è complicato, la … massa dei collaboranti permette di distribuire le differenti operazioni, e quindi di compierle contemporaneamente.” (op. cit., p.369). Qui viene portata ad esempio la pesca.
Ma queste sono solo le figure più semplici della cooperazione in quanto “La cooperazione rimane la forma fondamentale del modo di produzione capitalistico, benchè la sua figura semplice … si presenti come forma particolare accanto alle sue forme più evolute.” (p.377). Infatti “La cooperazione … si crea la propria figura classica nella manifattura” (p.379) e “questa divisione del lavoro è una specie particolare della cooperazione.” (p.382)
La manifattura è “un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini” (p.381), che “coincide completamente con la disgregazione di una attività artigianale nelle sue differenti operazioni parziali.” (p.381). Quindi l’operaio complessivo combinato, che costituisce il meccanismo vivente della manifattura, consiste unicamente di tali operai parziali unilaterali.” (p.382). Vengono descritti due tipi di manifattura. “La struttura della manifattura ha due forme fondamentali; … Questo duplice carattere deriva dalla duplice natura del manufatto stesso, che viene formato per semplice congiunzione meccanica di prodotti parziali indipendenti, oppure deve la sua figura finita a una serie di processi e manipolazioni connessi fra di loro.” (p.385). Es. rispettivamente l’industria degli orologi e la classica fabbricazione di spilli. Viene sottolineata la novità del secondo tipo. Se consideriamo la materia prima “Vediamo che la materia prima percorre una successione temporale … di fasi di produzione … Se consideriamo l’officina come un solo meccanismo complessivo vediamo che la materia prima si trova simultaneamente in tutte le sue fasi di produzione … Diversi processi graduali si sono trasformati da una successione temporale in una giustapposizione spaziale.” (p.387). Si tratta della catena di montaggio, emblema dell’industria moderna, di cui vengono presi in considerazione i problemi tecnici di bilanciamento dei tempi (distribuzione proporzionale degli addetti).
Si tratta di dichiarazioni sparse che occorre radunare in una sintesi. La cooperazione è lo svolgimento in comune del lavoro fra una pluralità di lavoratori che operano secondo un piano. Ne consegue la concentrazione in uno stesso luogo di uomini e di strumenti di lavoro utilizzati in comune, che tuttavia non è una conseguenza necessaria, come accade nella divisione del lavoro moderna. Essa si presenta in due forme: cooperazione semplice e cooperazione sviluppata, o divisione del lavoro manifatturiera, per il fatto che nella prima le operazioni sono identiche e simultanee, nella seconda differenti e successive. Della cooperazione semplice si hanno due tipi secondo il grado di complessità delle operazioni. Nel primo tipo le operazioni sono identiche e lo scopo della cooperazione è accelerare il lavoro, cioè guadagnare tempo, o estendenderne l’effetto nello spazio. Es. lavori agricoli: dissodamento, bonifiche, raccolto; edilizia, cioè costruzione di opere di grandi dimensioni e strutturalmente omogenee: edifici monumentali, fortificazioni, strade, gallerie, canali, argini, dighe; trasporto di carichi pesanti e di oggetti numerosi. Nel secondo tipo le operazioni sono differenti, ma essendo il compito indivisibile devono essere compiute simultaneamente. Es. la manovra di una nave, operazioni belliche di un esercito, battute di caccia collettiva.
Si ha divisione del lavoro manifatturiera quando la cooperazione viene realizzata come successione temporale di operazioni connesse e differenti, ciascuna come compito di un addetto particolare, quindi secondo un piano. Es. produzione di macchine. Questo però è solo un modo di considerare il processo, cioè dal punto di vista dinamico, quello che pone l’attenzione sul singolo prodotto, il quale passa da una stazione di lavoro a quella successiva. Se invece si considera il processo dal punto di vista della catena, cioè statico, il prodotto appare simultaneamente in tutte le fasi della sua produzione, stato che non varia nel tempo, se non per introdurre nella catena la materia prima ed esplellerne il prodotto finito. Cioè si ha l’esecuzione simultanea di operazioni differenti e connesse, realizzando un flusso continuo di semilavorati come stadi successivi della fabbricazione del prodotto. Quindi, poichè una successione temporale di operazioni differenti viene trasformata in un insieme simultaneo, si determina una situazione identica alla cooperazione semplice del secondo tipo. Ciò comporta un enorme guadagno di tempo, sebbene ciò che veniva eseguito da un solo operatore ora viene eseguito da molti.
Divisione sociale del lavoro
Dopo la cooperazione semplice e quella manifatturiera Marx passa a considerare una diversa forma di divisione del lavoro, la forma sociale. Anche questa non viene definita esplicitamente, ma solo descritta. Viene dichiarato che “La divisione del lavoro nella società, e la corrispondente limitazione degli individui a sfere professionali particolari, sorge dalle differenze di sesso e di età.” (p.394). D’altra parte “Comunità differenti trovano differenti mezzi di produzione e differenti mezzi di sussistenza nel loro ambiente naturale. Quindi il loro modo di produzione e i loro prodotti sono differenti … Qui la divisione sociale del lavoro sorge attraverso lo scambio di sfere di produzione originariamente differenti, ma indipendenti.” (p.395). Poi la divisione sociale viene posta a confronto con quella manifatturiera individuando tre caratteri che le oppongono. Per la prima “il caso e l’arbitrio si incaricanio di distribuire i produttori di merci e i loro mezzi di produzione fra le differenti branche sociali di lavoro.” Nella seconda vi è “una regola seguita a priori secondo un piano” (p.399). Poi “La divisione del lavoro all’interno della società è mediata dalla compraventita di differenti branche di lavoro; la connessione dei lavori parziali nella manifattura è mediata dalla vendita di differenti forze lavoro allo stesso capitalista.” (p.398). Infine “La divisione del lavoro di tipo manifatturiero presuppone la concentrazione di mezzi di produzione in mano ad un solo capitalista, la divisione sociale del lavoro presuppone la dispersione dei mezzi di produzione fra molti produttori indipendenti.” (p.399).
Da tale decrizione appare chiaro che quanto differenzia la divisione sociale del lavoro dalla cooperazione è il fatto che ora la collaborazione non ha luogo consapevolmente secondo un piano, che è quello del capitalista, ma è casuale ed inconsapevole, in quanto lo scambio prende il posto del piano. Anzi non si ha affatto collaborazione ma competizione. Notiamo che il termine “sociale” qui significa “nella società”, non “relativo ad una socializzazione”. Infatti è assente ogni forma di organizzazione fra i produttori, mentre quella interna ad ogni unità di produzione è indipendente dalle altre, e può avere qualsiasi forma. Un’altra caratteristica saliente è che produttori e mezzi di produzione sono dispersi mentre nella manifattura sono concentrati in unità produttive di grandi dimensioni.
Sotto questa rubrica vengono tratteggiate due diverse divisioni sociali del lavoro. La prima è quella relativa alla piccola produzione mercantile, cioè artigianale, dove produttori indipendenti di uno stesso gruppo sociale producono beni che vengono scambiati all’interno della comunità, cioè merci. La seconda divisione è quella territoriale, dove i soggetti economici, che possono essere intere comunità, producono per lo scambio con soggetti economici esterni e il loro legame è il commercio a lunga distanza. E’ chiaro che tra le due specie di divisione del lavoro sociale la differenza sta solo nell’ampiezza del mercato e nella distanza che lo separa dei luoghi della produzione, elementi tra loro connessi. Infatti si ha commercio a lunga distanza solo per mercati sufficientemente ampi, mentre viceversa mercati anche piccoli possono alimentare piccole produzioni locali.
Macchinismo
Per quanto concerne l’uso delle macchine, che caratterizza il passaggio alla grande industria, viene dichiarato che “il periodo della manifattura semplifica, perfeziona e moltiplica gli strumenti di lavoro … e così crea una delle condizioni materiali delle macchine, che consistono in una combinazione di strumenti semplici.” (p.384). Ma viene sottolineato che “Macchinario specifico della manifattura rimane l’operaio complessivo stesso, combinazione di molti operai parziali.” (p.392).
Quindi, quanto alle macchine, la divisione del lavoro manifatturiera prepara lo sviluppo del macchinismo in quanto tale riorganizzazione del processo di lavoro lo scompone in operazioni semplici e determinate, fino al punto in cui diviene necessario creare un utensile apposito per ciascuna di esse, per cui infine queste possono essere eseguite da una macchina. Questo è evidente nella seconda rivoluzione industriale dove il taylorismo prepara le condizioni per l’introduzione del fordismo. E solo allora questo è possibile, perché la scienza può essere applicata solo a situazioni semplici. Quindi all’interno della fabbrica la macchina non introduce una nuova forma di divisione del lavoro, ma determina un salto qualitativo, il passaggio al macchinismo, che si ripercuote fortemente nelle altre forme di divisione del lavoro.
Infatti il passaggio al macchinismo porta alla nascita della fabbrica. Ciò determina da una parte la fine della manifattura, mentre dall’altra, per quanto riguarda l’artigianato, già la manifattura l’aveva messo in crisi, ma il macchinismo portando a termine la dequalificazione dell’operaio, lo estingue quasi del tutto. Ma i grandi investimenti necessari al nuovo modo di produzione determinano una crescente concentrazione di capitale determinando infine la formazione di grandi monopoli prima nazionali poi internazionali, cioè delle multinazionali, sostituendo la fabbrica con la società per azioni tendenzialmente oligopolistica. Ciò determina la fine della concorrenza e quindi dell’anarchia di mercato del capitalismo liberista che ne era l’espressione. Ora la produzione può essere regolamentata e ciò avviene mediante accordi di cartello.
2. I FATTORI STORICI
Pertanto vi sono due grandi generi di divisione del lavoro: cooperativa e sociale, che si distinguono per il fatto che la prima è mediata da un piano, la seconda dallo scambio. Ciascuna a sua volta di articola in due specie. La cooperazione in cooperazione semplice e sviluppata (o manifatturiera), secondo che le operazioni siano simultanee o successive. La divisione del lavoro sociale in artigianale e territoriale, secondo che sia locale o internazionale. Ma per definirne completamente il carattere occorre considerare le condizioni storiche che stanno alla loro origine e i rapporti sociali che ne fondano la struttura e il dispiegamento pratico.
Divisione del lavoro sociale è sempre esistita come scambio di eccedenze a partire dalla divisione del lavoro all’interno della famiglia e della comunità, nella forma del comunismo primitivo. La cooperazione sorge solo con la formazione di società complesse, e quando la divisione sociale del lavoro si è già ampiamente sviluppata. Consideriamole ora nell’ordine storico.
Divisione del lavoro artigianale
E’ la divisione del lavoro più antica e caratterizza ogni società precapitalista. Infatti la troviamo già nel villaggio primitivo e la sua origine si perde nella notte dei tempi. Sicuramente la sua forma originaria è la divisione del lavoro basata sul sesso e sull’età,e relativa ai grandi modi di produzione naturali: raccolta, caccia, pesca, allevamento e agricoltura. Decisiva è la creazione di una eccedenza nell’agricoltura, che permette prima la separazione tra lavoro manuale ed intellettuale, poi la separazione tra industria e agricoltura, con la sua prima figura, il fabbro, ma poi anche altre, come il vasaio e il carpentiere. Queste sono le premesse per lo sviluppo dell’artigianato, che trova il suo luogo specifico con la fondazione delle città, separandosi così dall’agricoltura anche spazialmente. Qui l’autorità dello stato organizza l’artigianato, come anche le altre figure del lavoro sociale, in caste nell’antichità, in corporazioni nel medioevo, sebbene lasci la piena autonomia al lavoratore all’interno del processo di lavoro in rapporto al modo di lavoro. La manifattura sostituirà poi l’artigianato e insieme ad esso il regime corporativo con il libero mercato, mentre il dispotismo delle corporazioni viene trasferito all’interno della manifattura come autorità del capitalista. Marx nota infatti. “Così l’autorità nella fabbrica e quella nella società, in rapporto alla divisione del lavoro, sono in ragione inversa l’una dell’altra.” (Miseria della filosofia, 1949, p.109).
La divisione territoriale del lavoro
Ha sicuramente una origine naturale, esistendo già in una economia di raccolta e soprattutto nell'agricoltura, dove in territori diversi si hanno produzioni differenti in rapporto alle caratteristiche del suolo e del clima. Es. le spezie, il legname, il grano, l’olio, il vino; le materie prime minerarie. Ma il suo pieno sviluppo si ha con quello dell’industria, prima artigianale, poi manifatturiera. Infatti l’artigianato costituisce la base principale per il commercio a lunga distanza, quindi della divisione del lavoro territoriale, e segna la nascita di una nuova professione, il commerciante. Il commercio internazionale è svolto da soggetti privati ma quasi sempre sotto il controllo dello stato, sia per imporre dazi, sia per l’importanza strategica dell’approvvigionamento di certe merci, sia per la concessione di monopoli (mercantilismo), fino ad assumerne direttamente la gestione.
La divisione del lavoro territoriale porta direttamente alla moderna divisione del lavoro internazionale e al mercato mondiale. Ma non solo, si è pervenuti recentemente alla divisione transnazionale del lavoro, cioè alla internazionalizzazione della produzione, che significa decentramento produttivo su scala nazionale e internazionale (Hobsbawm, Il secolo breve, BUR 2006, p.329).
La divisione internazionale del lavoro moderna è passata attraverso tre fasi. Quella coloniale, dove le colonie produttrici di materie prime le scambiano con i manufatti delle metropoli industriali. Quella neocoloniale, caratterizzata dal fenomeno della delocalizzazone degli impianti, cioè dal trasferimento delle industrie del mondo sviluppato nei paesi in via di sviluppo (PVS) attirate dai bassi salari e agevolazioni fiscali e finanziarie, per cui lo scambio è tra manufatti a basso costo e tecnologia e servizi. Quella transnazionale, dominata dal decentramento produttivo che corrisponde ad una divisione manifatturiera internazionale del lavoro.
Cooperazione semplice
Si tratta di un’unica operazione svolta tramite l’attività simultanea di più individui. In essa si distinguono due tipi. Nel primo il prodotto si caratterizza per le sue cospicue dimensioni, mentre è strutturalmente semplice, per cui è possibile, sebbene non strettamente necessario, operare con una molteplicità di individui simultaneamente. Tale tecnica la si ritrova alle origini delle civiltà monumentali antiche, le cosiddette società idrauliche, studiate da Wittfogel (K.A. Wittfogel, Il dispotismo orientale, Vallecchi 1968; ma anche L. Mumford, Il mito della macchina, il Saggiatore, 1969), dove la costruzione di edifici monumentali e i lavori agricoli erano realizzati in comune da grandi masse di lavoratori in regime di cooperazione. Nel secondo tipo si tratta di compiti complessi costituiti da operazioni simultanee inseparabili. Qui l’esempio più notevole è quello di un esercito che esegue manovre su di un campo di battaglia, dove i movimenti coordinati dei reparti e dei singoli soldati determina l’azione dell’esercito come un unico organismo, così come la manovra di un vascello. Anche qui si tratta di situazioni proprie dell’antichità e del medioevo, per cui si può affermare che la cooperazione semplice è la forma di divisione del lavoro caratteristica di tali epoche, anche se non la sola. Essa rimane importante per tutta l’età precapitalistica.La si ritrova ancora agli albori del capitalismo nella manifattura del dominio formale, quando il capitalista si limita a radunare in una sola unità produttiva una moltitudine di artigiani, ciascuno dei quali attende all'intero ciclo di lavorazione, con la collaborazione di alcuni aiutanti da lui dipendenti. Sostanzialmente vengono riunite sotto lo stesso tetto una serie i botteghe artigiane, realizzando economie di scala per le attrezzature. Ma con il passaggio al dominio reale questo tipo di cooperazione scompare rapidamente. Infatti ha una posizione marginale nel capitalismo, e sopravvive solo nell’edilizia e nell’agricoltura, ma con l’uso delle macchine e tecniche specifiche per queste attività (macchine movimento terra, autogrù, macchine agricole, veicoli industriali, applicazione della chimica all’agricoltura) tali settori vengono riorganizzati secondo lo schema della grande industria. Per la manovra di macchine complesse la cooperazione è sostituita da automatismi.
Divisione del lavoro manifatturiera
Quando si trattasse di lavoro minimamente qualificato tutte le precedenti forme di divisione del lavoro si erano fermate di fronte a quella che allora appariva come l’unità produttiva fondamentale, il laboratorio dell’artigiano, cioè il luogo della produzione di un bene utile, immediatamente consumabile in quanto soddisfa un bisogno determinato. L’età moderna, quindi il capitalismo, si caratterizzano proprio per questo, per aver varcato questo “limite sacro”. Mentre in precedenza ogni suddivisione del mestiere, cioè di un processo di lavoro, in lavori parziali generava solo due o più nuovi mestieri, con le loro botteghe e organizzati nelle loro rispettive corporazioni, ora il processo di lavoro viene ridotto in segmenti sempre più piccoli e ciascuna di queste operazioni parziali viene affidata ad un operaio parziale, che opera congiuntamente con tutti gli altri, nello stesso luogo e secondo un piano. Tale tecnica determina da una parte enormi aumenti di produttività, e dall’altra prepara lo sviluppo del macchinismo, con ulteriori aumenti di produttività.
Ciò che occorre spiegare non è tanto come abbia potuto verificarsi un tale mutamento dell’organizzazione del lavoro, ma piuttosto perché non sia avvenuto prima, tale è la semplicità dell’idea. La risposta più comune è economica, cioè la crescita della domanda in seguito allo sviluppo delle colonie, ma ciò non implica una tale rivoluzione, poiché poteva essere sufficiente un accrescimento quantitativo dell’organizzazione esistente, cioè dell’artigianato. Il problema è simile a quello della mancata applicazione della scienza greca alla produzione, limitata invece alla costruzione di ingegnosi giocattoli. Qui la risposta sta nell’esistenza della schiavitù, spiegazione anche questa insufficiente. E’ chiaro che la spiegazione deve comprendere anche la mentalità e i pregiudizi del mondo precapitalistico, ma quale sia quella vera non potremo mai asserirlo con certezza, ma solo avremo la conferma di quanto siano potenti i condizionamenti ideologici fino a quando un‘epoca non entra in crisi, cioè fino a quando lo sviluppo delle forze produttive non sorpassa le possibilità dei rapporti di produzione esistenti rendendoli intollerabili, e ciò prima che moralmente, nei fatti.
Come si è visto, la divisione del lavoro manifatturiera assorbe in gran parte la divisione del lavoro artigianale ma non estingue completamente l’artigianato, in quanto ogni operazione richiede ancora una certa abilità per essere svolta. L’estinzione del mestiere artigianale sarà poi opera della macchina, cioè con il passaggio al sistema di fabbrica. Tale processo è molto più lento per le professioni e per il lavoro intellettuale in genere, che si specializza lentamente e solo in parte, pur divenendo sempre più lavoro salariato. Ma anch’esso subisce la sorte del lavoro manuale quando l’informatizzazione accelererà la meccanizzazione di tali lavori e la conseguente proletarizzazione del produttore, costretto ad assoggettarsi alla divisione del lavoro manifatturiera.
La stessa trasformazione ha già avuto luogo, come si è visto, per la cooperazione semplice. Inoltre recentemente la divisione del lavoro manifatturiera con il decentramento produttivo, reso possibile dalla rivoluzione dei trasporti e delle comunicazioni, si è estesa su tutto il territorio nazionale ed anche a livello internazionale. Così si è avuta la trasformazione della divisione del lavoro territoriale prima in divisione del lavoro internazionale dominata dalle multinazionali, superando di fatto le limitazioni dei confini nazionali, pervenendo poi recentamente ad internazionalizzare anche la produzione, giungendo ad organizzare la divisione del lavoro manifatturiera su scala nazionale ed internazionale, trasformando tendenzialmente il mondo in un’unica manifattura.
Il decentramento del processo di lavoro è un reale salto qualitativo nella divisione del lavoro. Infatti non è più vero che si tratta di “lavoro di molte persone che lavorano una accanto all’altra” (p.367), e questo nuovo elemento determina una integrazione enormemente più stretta fra le unità produttive, che non scambiano più solo prodotti finiti ma semilavorati e componenti staccate. Non si tratta più quindi della divisione manifatturiere del lavoro classica, ma di un ibrido tra essa e la divisione sociale del lavoro, che così sono fuse in un nuovo paradigma Ciò comporta un salto qualitativo nell’organizzazione dell’economia nella sua totalità, e quindi anche della società che ora deve essere intesa come un tutto fortemente strutturato. Ciò significa che un’epoca è al tramonto, anzi è di fatto già terminata e che ci troviamo in un mondo nuovo che deve ancora prendere coscienza di sé.
3. LA SOCIALIZZAZIONE
La nascita della manifattura determina per quanto concerne i rapporti sociali in generale due eventi fondamentali, fra loro correlati.
In primo luogo la divisione del lavoro manifatturiera si pone come estrinsecazione di una nuova forza produttiva, quella del lavoro sociale dispiegato. Infatti “la divisione manifatturiera del lavoro è creazione del tutto specifica del modo di produzione capitalistico.” (p.402) e “crea … una determinanta organizzazione del lavoro sociale, sviluppando così una nuova forza produttiva sociale del lavoro” (p.408). Ovviamente il capitale non si pone alla testa di questo movimento storico per amore del progresso, anche se questo può essere vero per singoli capitalisti. “Se il modo capitalistico di produzione da una parte si presenta come necessità storica affinchè il processo lavorativo si trasformi in processo sociale, d’altra parte questa forma sociale del processo lavorativo si presenta come metodo applicato dal capitale per sfruttare il processo stesso con maggior profitto”. (p.376).
Ma l’epoca moderna ha visto non solo la nascita della manifattura, cioè la nascita del lavoro sociale come prodotto specifico del capitale, ma anche la rapida incorporazione da parte della divisione del lavoro manifatturiera di tutte le altre forme di divisione del lavoro. O meglio, la fusione di tutte le forme in una forma ibrida, la divisione del lavoro transanazionale, cioè l’unificazione di quella artigianale e della cooperazione semplice, per infine assorbire anche la vecchia divisione internazionale del lavoro, traformandola in manifatturiera transnazionale. Ciò ha determinato una crescente socializzazione del lavoro.
L’avvento del lavoro sociale e il suo sviluppo tumultuoso comportano conseguenze epocali. Se fino tempi recenti poteva ancora aver corso l’illusione che il mercato fosse il regno della libertà economica e quindi sociale, e che ciò determinasse magicamente l’utilizzo ottimale delle risorse disponibili, mentre in realtà è il luogo del dominio delle cieche forze economiche impersonali, ora in un mondo dove una economia globalizzata è dominata da un numero ristretto di multinazionali questa illusione deve svanire, e viene quindi posto concretamente il problema della gestione dell’economia come un tutto unico in vista dell’interesse generale e della definitiva liberazione degli individui dall’economia come potenza che li domina. E questo non tanto e non solo in linea di principio, ma concretamente in linea di fatto, dato che l’esistenza di una economia integrata a livello planetario, e gestita dalle multinazionali come tale, è un dato reale. La soluzione è quindi a portata di mano, in quanto il capitale ha trasformato l’economia mondiale in una struttura unitaria integrata. Ma l’ostacolo principale che si frappone alla realizzazione di tale soluzione sta nel fatto che questa economia globale integrata è gestita da ristretti circoli elitari oligopolistici, nell’interesse di pochi centri di potere, per lo più direttamente, oppure tramite governi che vengono continuamente scavalcati da questi centri nelle decisioni di politica economica nazionale, o ignorati a livello internazionale in quanto non dispongono di strumenti di intervento a quel livello, e dove esistono, come l’ONU, il WTO, la BCE, sono inadeguati. Ma anche le multinazionali non riescono in realtà a governare l’economia mondiale, come testimoniano le crisi ricorrenti che la travagliano, crisi che comportano una enorme distruzione di ricchezza, sia fittizia, cioè finanziaria, ma anche reale, con la chiusura di impianti, svalorizzazione di immobili, disoccupazione.
Finora ogni fase di sviluppo della divisione del lavoro ha coinciso con la nascita di una nuova struttura di potere, cioè una classe che rappresentava e costituiva concretamente, cioè sul piano dell’organizzazione del lavoro, l’unità dell’attività produttiva dopo la suddivisione, potere necessario anche per imporre la divisione e la disciplina corrispondente (monarchia, teocrazia, aristocrazia, timocrazia, corporazioni). La forma classica di divisione del lavoro del capitale, quella manifatturiera, ed ancor più la sua ultima versione decentrata, apparentemente la più libera, è invece la più dispotica e mistificatrice. Le precedenti forme di potere da una lato avevano lasciato in parte libero il lavoro mantenendo l’unità del lavoro artigianale, e dall’altro utilizzavano direttamente come strumenti di costrizione le armi e la religione, come minaccia permanente in questa e nell’altra vita. Su tale potere fondavano la loro proprietà, come un fatto più che come un diritto. Invece il potere connesso alla divisione del lavoro manifatturiera da una parte è penetrato fino agli ultimi elementi del processo di produzione (taylorismo), e dall’altra fonda il suo potere sulla proprietà dei mezzi di produzione, cioè inverte il rapporto tra potere materiale e diritto astratto, fondando il potere sulla mistificazione del diritto, a sua volta fondato sulla politica, nella forma della democrazia manipolata. Quindi usa il potere della forza e dell’ideologia (ora non più religiosa ma scientifica, in particolare quella della scienza economica) solo indirettamente.
Mediante questo esercizio indiretto del potere il capitale può entrare in profondità nel processo di lavoro mentre nelle società precapitaliste il lavoro era costrittivo ma non eterodiretto. Il motivo sta nella diversa concezione del lavoro nei rispettivi contesti sociali. Nelle società tradizionali il lavoro era considerato come unità naturale del lavoratore con il suo strumento, in modo evidente nell’agricoltura, dove la terra era vista come qualcosa cui il servo era unito indissolubilmente e anche giuridicamente, e che come tale “si coltivava da sé.” (Manoscritti del ’44, Einaudi 1968, p.93). La stessa visione era proiettata sul lavoro artigianale, dove l’unità uomo-strumento era l’agente della produzione, di per sè inscindibile, che come l’unità terra-servo creava “naturalmente” il prodotto. Mentre nella società borghese il lavoro è visto essenzialmente come fatto tecnico, come procedimento oggettivo, quindi scomponibile, migliorabile e dominabile in quanto tale.
D’altra parte è solo con la divisione del lavoro manifatturiera, cioè solo con il lavoro sottoposto al comando capitalistico, che può nascere il lavoro sociale e mostrarsi in tutta la sua straordinaria potenza, quindi essere riconosciuto come tale, esattamente quando acquista l’egemonia e assorbe tutte le altre modalità di divisione del lavoro, pervenute solo ad un grado inferiore di socializzazione, quindi meno produttivi del lavoro sociale dispiegato. Questa unificazione del mondo sotto il segno del capitale non è altro che l’essere pervenuta la divisione del lavoro al suo massimo sviluppo, quindi la socializzazione delle forze produttive al suo livello più alto. Un idealista direbbe che lo Spirito è pervenuto infine alla coscienza della propria unità quindi di se stesso, ma è ovviamente il contrario: l’economia mondiale, la base di esistenza dell’umanità, è giunta a costituirsi come totalità, quindi ora l’umanità può e deve pervenire alla coscienza di ciò, e in conseguenza di ciò della propria unità oggettiva, cui segue la coscienza di sé come unità soggettiva.
In concreto tutto questo contradditorio processo equivale alla nascita oggettiva del comunismo, ma nell’assenza di rapporti di produzione e sociali comunisti, i soli adeguati al grado di socializzazione raggiunto dal lavoro e dalle forze produttive in generale, essenzialmente forze del lavoro sociale, grado che esige un livello altrettanto elevato di socializzazione del rapporto di produzione. Cioè la scomposizione dei processi produttivi in una miriade di operazioni ciascuna eseguibile solo da specialisti implica una speculare riaggregazione dei frammenti in un tutto integrato. Ma poiché si tratta sempre più di un unico processo che ormai esce dalla fabbrica e si estende a tutto il pianeta, esso non può essere governato verticisticamente, anzi questa modalità di organizzazione diviene sempre più un ostacolo allo sviluppo di tali forze produttive. Infatti l’integrazione ormai può essere realizzata solo attraverso la partecipazione degli esecutori stessi, i quali quindi devono porsi come parte attiva reale della loro stessa attività lavorativa. Il rapporto di produzione comunista è il solo in grado di produrre tale partecipazione, cioè il solo in grado di coinvolgere il lavoro nella gestione effettiva del processo di lavoro, che è poi banalmente la condizione minima perché perché il lavoro realizzi il proprio fine. Proprio per questo il capitale è costretto attualmente a realizzare una economia e una società comuniste senza il comunismo. Basti considerare il ruolo attuale dello stato e della spesa pubblica nell’economia nazionale e quello delle istituzioni internazionali nella globalizzazione. O ricordare il carattere sociale, in termini reazionari ma anche concretamente economici, che hanno avuto il fascismo e il nazionalismo borghese. Ma anche, nonostante tutto, la Germania di Bismark.
Attualmente il potere che possiede e gestisce l’economia e quindi la società è quello della borghesia classica, il cui orizzonte è dato dal profitto, criterio di efficienza e razionalità che essa confonde con l’interesse generale. Il limite estremo di tale orizzonte è ben espresso da quanto dichiarava un anonimo imprenditore: “Prima fatemi realizzare il profitto, così poi potremo distribuirlo a tutti”, che esprime il pensiero di sempre del capitale progressista, il cui modello classico è A. Olivetti, ma si tratta solo dell’ultimo baluardo eretto a difesa dell’interesse particolare.
Siamo evidentemente nella classica situazione di una crisi sociale che reclama con crescente urgenza una trasformazione rivoluzionaria per essere superata. Quella attuale è una società pervenuta ad uno sviluppo delle forze produttive, cioè della divisione del lavoro, che si scontra con rapporti di produzione superati, cioè privatistici e contrattuali, e che richiede nuovi rapporti di produzione in grado di valorizzare e sviluppare tali forze produttive. Rapporti che non possono che costruirsi sull’introduzione di una reale democrazia nei luoghi di lavoro, che significa abolizione del potere di comando sul lavoro fondato sulla proprietà dei mezzi di produzione, potere indiretto e in apparenza “democratico” ma non per questo meno costrittivo. Ma al contempo accanto all’esigenza di una democrazia di base è necessaria anche una regolazione dell’economia, ciò in quanto l’economia mondiale opera come un’unica grande fabbrica sulla base di una divisione del lavoro estesa a tutto il pianeta, regolazione che però non può essere verticistica, come quella attuale, sebbene vi sia l’esigenza oggettiva di un funzionamento in base ad un piano. Si tratta infatti di contemperare le due esigenze contrastanti. Da una parte quella della democrazia di base, quindi di una grado di autonomia decisionale, che disponga del potere di adattare le direttive di carattere generale alla situazione reale locale. Dall’altra vi è la necessità di un piano generale che però non scaturisca da un potere centrale insindacabile, che non cancelli i poteri di autogestione locali. Si tratta di due esigenze contradditorie, ma entrambe ineludibili proprio per ragioni oggettive, per la forma assunta dall’economia nell’epoca attuale.
Valerio Bertello
Torino, dicembre 2009
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